Testo legge

La Chambre de l’Instruction della Corte d’Appello ha ritenuto il processo penale in absentia non
confaorme all’art. 6 della CEDU

È balzata agli onori della cronaca la decisione del 29.06.22 della Chambre de l’Instruction
della Corte di Appello di Parigi che ha negato l’estradizione richiesta dall’Italia degli arrestati
nell’ambito dell’operazione “ombre rosse” nell’aprile 2021. Le motivazioni che hanno
indotto il Collegio a rigettare la domanda presentata dall’Italia possono essere ricondotte
alle seguenti ragioni:
 la Chambre ha ritenuto che il procedimento in contumacia, come strutturato in
Italia, non risponda ai requisiti del cosiddetto giusto processo e violi la Convenzione
Europea dei diritti dell’uomo, in particolare gli artt. 6 e 8;
 ha poi ritenuto che, una volta concessa l’estradizione, al rientro in Italia gli arrestati
debbano essere nuovamente processati, con le garanzie del giusto processo, ma
che di tale eventualità non vi è alcuna garanzia;
ha poi osservato che i fatti sono rilevanti nel tempo, circa quarant’anni, e che l’Italia
per circa trent’anni non si è attivata presso lo Stato Francese per richiedere
l’estradizione, il che da una parte determina una sorta di abbandono della capacità
e volontà punitiva dello Stato Italiano, e dall’altra ha determinato che gli arrestati
abbiano abbandonato ogni attività criminosa ricostruendosi una vita ed una
famiglia, oltre alla circostanza che alcuni di loro abbiano seri problemi di salute che
devono essere tenuti in evidente considerazione.
Queste motivazioni mi inducono a prospettare alcuni ragionamenti sullo stato dell’arte di
questa procedura di estradizione che è ancora in atto in quanto il Procuratore Generale di

Parigi ha impugnato davanti alla Corte di Cassazione Francese la sentenza di rigetto
dell’estradizione.
A) La Chambre ha ritenuto che il processo penale in absentia non sia conforme alla
Convenzione Europea, art.6, che attribuisce il diritto all’equo processo. Si tratta quindi di
valutare se tale procedimento sia un procedimento validamente instaurato o, come
sembra che intenda la Corte francese, sia una anomalia che mini il diritto al giusto
processo. Sotto il profilo dell’Ordinamento Giuridico internazionale si deve osservare che la
circostanza della volontaria sottrazione dell’imputato a partecipare al processo non può
essere ritenuta sufficiente per ostacolare la celebrazione del processo penale da parte di
uno Stato che deve esercitare una pretesa punitiva a tutela della collettività nazionale, o di
un Organismo Giuridico Internazionale che deve esercitare una pretesa punitiva
internazionale. Conseguentemente, una volta che siano state effettuate tutte le ragionevoli
possibilità di notificazione degli atti di imputazione, nonché siano state messe in atto tutte
le possibili ricerche risultate senza esito, va da sé che non può essere impedito il processo
cosiddetto in contumacia.
Lo Stato Italiano garantisce la difesa tecnica degli irreperibili, dei contumaci senza nomina
difensiva ponendo in capo al giudice del processo l’onere e l’obbligo di nominare
un difensore d’ufficio il quale, tra le proprie facoltà riconosciute dalla legge, ha anche il
potere di presentare appello e successivamente ricorso in Cassazione, oltre ad avere tutti i
poteri defensionali come un difensore nominato dall’imputato. Sembra di capire che la
Chambre abbia ritenuto in ogni caso il processo in contumacia come non sufficiente ai fini
di una condanna definitiva, insistendo sulla necessità di un nuovo processo al rientro in
Italia dei condannati nel processo in contumacia. Lo scrivente non ritiene tale
impostazione corretta perché condurrebbe ad alcuni distorti fenomeni. In primo luogo
sarebbe come affermare che basterebbe sottrarsi alla presenza nel processo per godere di
un ulteriore grado di giudizio, nel momento in cui si decida di “riapparire” e quindi anche
di un successivo grado di giudizio (e magari anche di appello e di cassazione).
In secondo luogo tale posizione equivale a sostenere che il processo in contumacia non sia
da ritenere valido pienamente ma debba essere poi supportato da una successiva fase di
merito, il che francamente appare fuori della logica giuridica contemporanea.

La Chambre si sofferma in particolare sulla lettura dell’art. 175 del Codice di Procedura
Penale che tratta i casi della restituzione nel termine. In particolare, come noto, in via
principale tutte le parti del processo hanno diritto alla restituzione del termine se provano
di non averlo potuto osservare per caso fortuito o forza maggiore.
Per quanto riguarda la sentenza contumaciale è prevista la restituzione nel termine
dell’imputato, a sua richiesta, salvo che lo stesso abbia avuta effettiva conoscenza del
procedimento o del provvedimento ed abbia volontariamente rinunciato a comparire o a
proporre impugnazione od opposizione.
Ha ritenuto la Corte che nessuna versione dell’art. 175 dia al condannato in assenza la
facoltà incondizionata di esercitare un ricorso e di essere nuovamente giudicato.
Tale posizione è fuorviante in quanto presuppone, erratamente, un diritto del condannato
in contumacia a beneficiare sempre di un nuovo processo a prescindere dalle motivazioni
che hanno determinato la sua assenza, il che non può essere in quanto se è vero che a
ciascuno deve essere riconosciuto il diritto di difesa non è vero che ciascuno abbia
l’obbligo di difendersi potendovi rinunciare.
Il punto fondamentale è comprendere se lo Stato abbia messo in condizione
l’indagato/imputato di esercitare il suo diritto di difesa. Una volta acclarato tale fatto, non
può essere consentito una rimessione in termini sempre e comunque. Sarebbe come
affermare che l’assenza dal processo, acclarata poi in contumacia, abilita, in caso di
condanna, a richiedere ed ottenere un nuovo processo.
La lettura che la Chambre dà dell’art.6 della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo è
errata in quanto nessuno dei diritti ivi indicati è stato negato. Ricordiamoli.
Ogni accusato ha diritto di:

  • essere informato, nel più breve tempo possibile, in una lingua a lui comprensibile e in modo dettagliato, della natura e dei motivi dell’accusa formulata a suo carico;
  • disporre del tempo e delle facilitazioni necessarie a preparare la sua difesa;
  • difendersi personalmente o avere l’assistenza di un difensore di sua scelta e, se non ha i mezzi per retribuire un difensore, poter essere assistito gratuitamente da un avvocato d’ufficio, quando lo esigono gli interessi della giustizia;
  • esaminare o far esaminare i testimoni a carico e ottenere la convocazione e l’esame dei testimoni a discarico nelle stesse condizioni dei testimoni a carico;
  • farsi assistere gratuitamente da un interprete se non comprende o non parla la lingua usata in udienza.

La Chambre ha fatto rilevare che le autorità italiane sono rimaste passive circa
trent’anni prima di formulare una domanda di estradizione, il che viene interpretato come
una rinuncia alla pretesa punitiva e che ha comportato come conseguenza che i
condannati in Francia si siano integrati nel sistema francese tanto da costituire famiglie,
svolgere regolari attività lavorative e quant’altro. Sotto tale profilo richiamano la tutela
dell’art. 8 della Convenzione dei diritti dell’uomo che garantisce e tutela la vita privata e
familiare.

Tra i motivi di non esecuzione facoltativa del mandato di arresto europeo, l’art. 4 punto 6
della decisione quadro 2002/584/GAI (relativa al mandato d’arresto europeo e alle
procedure di consegna tra Stati membri) attribuisce al legislatore interno la facoltà di
prevedere che l’autorità giudiziaria rifiuti la consegna del condannato ai fini dell’esecuzione
della pena detentiva nello Stato emittente quando si tratti di un cittadino dello Stato di
esecuzione, ovvero ivi risieda o vi abbia dimora. La ratio che giustifica tale facoltà è quella
funzionale all’stanza di rieducazione e risocializzazione della pena del condannato.
A tale proposito occorre rammentare che con la sentenza 227 del 2010 la Corte
Costituzionale italiana, in linea con gli orientamenti della Corte di Giustizia UE (CGCE 06-
1.2009, C-123/08; CGCE Grande Sezione 17.07.2008, C-66/08) ha riconosciuto spettante
all’autorità giudiziaria l’accertamento circa la residenza o dimora, ai fini della valutazione
complessiva degli elementi caratterizzanti la situazione della persona, tra cui la durata, la
natura, la modalità della presenza nel territorio, nonché dei legami familiari ed economici
che la persona intrattiene. Ergo, in linea di principio, in materia di MAE (mandato di
arresto europeo) la valutazione di questi elementi è compito, nella fattispecie in esame,
della Chambre de L’instruction.
A contrastare però la ricostruzione fattuale operata dal giudice francese, si può ricordare
che già negli anni ’90 e negli anni 2000 la Corte di Appello di Parigi aveva espresso parere
favorevole all’estradizione ma che ad esso non sono poi seguiti atti esecutivi di
estradizione. La normativa procedurale francese infatti prevede il termine di quattro mesi
per eseguire la decisione di estradizione e lo Stato che fa richiesta ha due mesi di tempo
per ricorrere se non viene eseguita. Una volta spirati inutilmente tali termini, la procedura
di estradizione viene considerata inutiliter data e viene archiviata.
Qui occorre che lo Stato Italiano faccia chiarezza in quanto, sotto un profilo di carattere
generale, non si può negare che la mancata coltivazione degli strumenti giuridici previsti
dalla procedura penale francese possa avere come conseguenza una sorta di acquiescenza
e rinuncia tacita alla pretesa punitiva. Occorre peraltro, questo ai fini esclusivamente
interni all’Ordinamento Giudiziario Italiano, individuare le responsabilità, tecniche e
politiche, dei soggetti che avevano la potestà di coltivare tali procedure e non lo hanno
fatto.
Deve emergere il principio della rendicontazione dell’attività della Pubblica
Amministrazione, in questo caso intesa in senso ampio vale a dire anche l’Amministrazione
della Giustizia; occorre che sia l’apparato dirigenziale che quello politico nonché quello
della magistratura si abituino non soltanto ad esercitare il potere/dovere ma anche
all’obbligo di render conto del proprio operato, sia come azioni che come omissioni.

Detto ciò non si può comunque affidare allo Stato Francese il giudizio di merito sulle
misure più idonee per l’attuazione della pena di condanna, seppur risalente nel tempo. Si
deve invece affermare che le giuste circostanze di fatto sollevate dai giudici francesi,
dovranno essere esaminate e tenute in considerazione dalla magistratura italiana. Non a
caso l’Ordinamento Giudiziario penale Italiano prevede la figura del Magistrato di
Sorveglianza, dell’Ufficio di Esecuzione ed altri organismi che hanno lo scopo precipuo di
valutare le modalità di svolgimento della pena.
Lo Stato non deve mai perseguire la via giudiziaria della vendetta, ma reprimere i
comportamenti delittuosi e mirare al recupero del condannato. Incidentalmente mi si
consenta anche di ricordare che la percentuale di condannati che svolgono attività
lavorative in carcere o comunque di recupero del soggetto, che una volta lasciato lo stato
di detenzione non tornano più a delinquere, è molto, molto alta. Il che dovrebbe indurre il
legislatore europeo e quello italiano in particolare, ad ideare e progettare sistemi e luoghi
in cui il recluso posso esplicare una attività che potrà continuare a svolgere una volta
riacquisita la libertà.
Revenons à nos moutons, occorre anche far rilevare che le richieste avanzate dalle
autorità giudiziarie ai sensi della Legge n. 69/2005, vale a dire di mandati di arresto
europeo, sono trattare dalla magistratura francese come procedure di estradizione. Il che
non è di poco conto perché il mandato di arresto europeo introdotto dalla decisione
quadro 2002/584/GAI, costituisce una procedura che si fonda sul principio del
reciproco riconoscimento dei procedimenti giudiziari e non è caratterizzata da valutazioni
politiche.
L’art. 32 della decisione quadro, disposizioni transitorie, stabilisce che le richieste di
estradizione ricevute antecedente il 01/01/2004 continueranno ad essere disciplinate dagli
strumenti esistenti in materia di estradizione; la norma precisa altresì che le richieste
ricevute a partire dal 01/01/2004 saranno soggette alle norme adottate dagli stati membri
conformemente alla decisione quadro, ma lascia agli stati membri la possibilità di derogare
a tale ultima decisione. Ecco perché le richieste italiane anche di mandati di arresto
europei continuano a seguire la procedura estradizionale.
La Corte di Giustizia dell’Unione Europea ha chiarito che l’art. 31 della decisione quadro
“deve essere interpretato nel senso che riguarda esclusivamente l’ipotesi di applicazione
del sistema del mandato di arresto europeo, applicazione che non ricorre allorché
l’estradizione concerne reati commessi prima della data stabilita dallo stato membro
richiesto in una dichiarazione resa ai sensi dell’art. 32 della decisione quadro”.
A sommesso avviso di chi scrive, la richiesta avanzata dalle autorità italiane doveva essere
trattata dando applicazione alla Decisione Quadro 2008/909/GAI del 27.11.2008 su
reciproco riconoscimento delle sentenze penali che irrogano pene detentive o misure
privative delle libertà personali ai fini della loro esecuzione nell’unione europea, sempre nei
limiti in cui tali disposizioni non siano incompatibili con i principi costituzionali in tema di
diritti fondamentali, diritti delle libertà e giusto processo. In applicazione di questa
disciplina lo Stato Italiano può chiedere il riconoscimento di una propria sentenza se ciò
favorisce il reinserimento del condannato.

In conclusione, attendendo la decisione della Corte di Cassazione francese, non sarebbe
peregrino interrogarsi sui rapporti italo-francesi di interpretazione delle norme processuali
di cui si è fatto accenno in precedenza, nonché sull’attuazione delle procedure europee
insistenti nei mandati di arresto europeo, di estradizione e di riconoscimento delle
sentenze penali in modo tale che si giunga ad una decisione uniforme sul territorio
europeo, limitando lo spazio degli stati membri a favore di un’uniforme orientamento
applicativo.

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